I nostri anziani fragili e soli facciamo subito qualcosa
. Il Parlamento ha approvato la legge di riforma cui hanno proficuamente collaborato 59 associazioni aderenti al Patto per un nuovo welfare per la non autosufficienza. La riforma dovrà essere finanziata (ci vogliono a regime dai cinque ai sette miliardi l’anno) con la prossima manovra di bilancio. La strada è giusta. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) prevede che entro il gennaio prossimo vengano emanati i decreti attuativi. L’amara realtà è che della riforma ci siamo già dimenticati. Le priorità sono altre. Per assicurare la dignità dell’anziano, la piena consapevolezza e l’esercizio in libertà dei propri diritti, e non soltanto l’assistenza quando la salute comincia a cedere, sono necessari una presa di coscienza individuale e un salto culturale. In altri Paesi europei, con una condizione demografica migliore di quella italiana, esiste il mandato di protezione per futura incapacità, previsto peraltro da una convenzione internazionale dell’Aia del 2000, che noi non abbiamo ancora ratificato. Esistono è vero, nel nostro ordinamento, misure pubblicistiche come la tutela e la curatela, ormai in disuso, e la nomina da parte di un giudice di un amministratore di sostegno. Ma ciò avviene quando ormai l’anziano ha perso la propria capacità cognitiva. Non decide lui, decide e non sempre con la tempestività necessaria, un giudice per lui. Meglio pensarci prima. Come? Nominando un mandatario che si occupi — un po’ come avviene con il testamento biologico o la legge del «Dopo di noi» per i disabili gravi — dei propri averi e delle necessità contingenti. Ma solo nel momento in cui il mandante non potrà più farlo. Il mandatario è una persona (anche giuridica) di fiducia, un professionista, non necessariamente un familiare. Non interferisce nei diritti degli eredi, casomai li garantisce. Il giudice, in questo caso, sorveglia solamente.
Riconoscere la possibilità di un decadimento del proprio fisico e della propria mente è esercizio civile di saggia preveggenza. Rispetta la libertà di autodeterminazione. Contribuisce a togliere la condizione del fine vita e il rischio di un decadimento delle nostre facoltà da quella «zona grigia» del senso comune che oscilla tra superstizione, fatalismo e vergogna di mostrarsi «non più come prima». Prevenire la fragilità è un gesto di forza. Significa dire agli altri: «Io deciderò di me stesso anche nel caso in cui non sarò più in grado di farlo». «Viviamo in un Paese — spiega Arrigo Roveda, tra gli autori di una proposta del Notariato in tal senso — nel quale solo l’11 per cento delle successioni è regolato da un testamento. Non ci si pensa. Ma quando si perde la capacità cognitiva chi decide della nostra esistenza? Anche solo per pagare banalmente una badante, per gestire al meglio la casa e la condizione di chi ci vive. A volte, però, ci sono di mezzo imprese, con azionisti e lavoratori». Roveda è il notaio che ha raccolto il testamento di un anziano e noto signore il cui funerale, nel giugno scorso, ha riempito il Duomo e la piazza.